L’amore è astratto – Capitolo 8

L’amore è astratto – Capitolo 8

“Perchè amare alla follia può significare impersonare un personaggio surreale, ma il peso di quell’illusione vale il peso del mondo sulle spalle. Per non aver paura della notte, affrontare l’amore con pura essenza di una stella, anche se non brilla di luce propria.”

Del resto impersonare significa rappresentare un concetto astratto.
L’amore è astratto.

Milena era un’attrice. Finse di essere quella piccola ombra di Emma, anche solo per una parte infinitesimale. Persone buone si fondono con malefiche strategie se il fine ultimo è la ricerca di una vita, la felicità. Durò due anni, ma anche se la incontrassi domani scommetterei che ancora conserverebbe immutato quel fascino nascosto, quel suo modo di far brillare gli occhi quando qualcosa o qualcuno la fa ripensare a mio fratello. Penso potrebbe accadere anche incontrandola in un’altra vita.

“Emma si volse per tornare da lui, aveva sbagliato a scrivergli il numero di telefono. Mancava il 3. Voltandosi per riattraversare la strada fu colpita da una macchina che arrivò in curva sbandando. Giusto lo spazio di un secondo, il sole sloggia, divenne di nuovo tempo di pioggia. Kaos.

Andò in coma, e prima di spegnersi del tutto rimase in quel sonno apparente, come un foglio bianco alla mercé dell’inchiostro forgiato nell’amore delle storie che lui le raccontava ogni notte, da fare invidia alla luna.
Alcuni mortali nelle loro vite non assistono a eclatanti misteri del destino, o ad attimi dal fascino così particolare che nascono e muoiono e si disgregano in un niente. Quello che fece Fregoli è difficile raccontarlo, sento di commettere un errore scrivendo, ma è una storia che insegna, e sono queste il genere di storie che vanno raccontate.”

Da qui in poi posso anche proseguire io con il racconto.
All’apparenza sembrano righe liete, siate curiosi, che legger dovete.

Questo racconto di Milena si conclude con questa frase: ”…una sera mi disse ‘so che non sei tu Emma’… ma io continuai a farmi amare in quel corpo che oramai sembrava appartenermi per un altro anno”.

Era una delle prime fasi della sua malattia.

Non lo vidi mai piangere in ospedale. Nè fuori. Non so perchè lo so, è come se l’aria della città quella storia ce la raccontasse a tutti, in diverso modo ma egual scopo. Il primo mese lo passò interamente fuori la stanza di terapia intensiva di Emma, il che, nonostante i familiari più stretti all’inizio ovviamente ignoravano chi fosse, è comprensibile per la situazione in sè. Chi ha perso qualcuno ne riconosce la rabbia, il rancore, la mancanza.

La dura legge del caos quando castiga sembra proprio essere imparziale.

Fu quello che avvenne dopo.

Durante la giornata conduceva la sua vita normale, come non fosse successo niente, ma qualsiasi richiesta di appuntamento serale veniva rigorosamente bocciata nei primi tempi con frasi come “stasera vedo Emma, scusa non posso”, di una naturalezza allarmante, come si trattasse di cinema o di un ristorante. Dopo un po’ di tempo le persone impararono semplicemente a non doverlo chiedere più… Ogni sera andava in ospedale e raccontava la storia della stella d’argento, come se la raccontasse per la prima volta, non divenne mai mnemonica, anzi cambiava ogni volta. Tutto questo, sposato nell’insonnia che ne consegue, ha chiarito quello che questi dottori continuano a denominarla una sindrome. Come fosse un male. Ma siamo arrivati veramente al punto che sia un male amare così?

Milena in quel periodo fu molto vicina a mio fratello, del bene infinito non voglio discuterne, ma nemmeno giudicare la scelta che fece. Mio fratello pian piano cominciò a vedere l’immagine di Emma in maniera casuale nelle altre persone che incontrava nel corso di quella che era una vita parallela, quella all’esterno dell’ospedale. Forse neanche troppo casuale. Fu in Milena che vide la prima trasmigrazione del corpo di Emma. Del corpo, non dell’anima. Accadde tre anni dopo la sera del fatidico incidente.

Leggendo quella frase con la quale Milena conclude il suo racconto potrei diagnosticare che il primo step della sindrome di illusione lo rendeva ancora capace di intendere cosa fosse reale dal surreale, l’immaginario. Amare anche una sola volta nella vita con intesa perfetta, in fluido armonico di genio e sregolatezza ci salva l’anima dall’inferno. Milena si accontentò di essere Emma fin quanto fosse durato. Chi sono io per giudicarla? Chi siamo noi per giudicare le azioni delle persone in amore? Noi non siamo nessuno e dovremmo ricordarcelo, per non distrarci e perdere occasioni come quelle che stiamo raccontando ora.