La Teoria di Elianto oppure Capitolo 2

La Teoria di Elianto oppure Capitolo 2

Amore platonico

Resto sempre incantato dal tuo sguardo, come sotto la tranquilla, controllabile tensione di Robin Hood prima dello scoccare dell’ultima freccia in un torneo dove se sbagli perdi, e se vinci rischi di morire. Ma per amore. Molti ti guardano e ti dicono “Dai, tira!”, ma sperano tu fallisca; nei tuoi occhi trovo la determinata concentrazione che guiderà ciò che non deve far nient’altro che andare dritto al bersaglio. Continua a fissarmi.

La Teoria di Elianto

“Non parlo mai del passato, mi basterà scriverlo ora, per timore di suscitare compassioni ed emozioni, e soprattutto perché non sono mai riuscito a riordinarmelo nella mente. Gli anni della mia felicità li porto dentro come uno specchio fortunato infranto nella mia memoria, nelle mie brame vedo ancora il mio reame.

Ostento freddezza e pragmatismo, due condizioni umane che reputo fortemente virili, ma in realtà sono un impertinente sognatore, il minimo gesto di fiducia o simpatia mi disarma. L’ingiustizia mi indigna, soffro dell’idealismo candido della prima giovinezza, nudo come un putto, che si rintana nel sottosuolo al riparo dalla grossolana realtà del mondo.

Un’infanzia e una vita ricca di privazioni, terrori e paure ci danno il via libera al captare la giusta sensibilità necessaria a intuire il lato nascosto delle cose e delle persone, una telepatia, una chiaroveggenza che ci nasce dentro spontanea ed improvvisa come una fiammata. Mai pretendere troppa razionalità, ci impedisce di badare a quei misteriosi avvertimenti o di seguire il comportamento suggerito dall’impulso.

Se si negano le proprie emozioni, da queste si viene travolti alla prima negligenza. Non ammetto neppure il richiamo dei sensi e tento di controllare la parte della mia natura che propende alle mollezze ed il piacere, ma non sempre ci riesco. Bisogna mettersi una corazza per sopravvivere in certi ambienti o situazioni. Tuttavia questa difesa è solo fumo che un soffio fa svanire. Procedo nella vita a sentimenti nudi, incespicando nel mio orgoglio e cadendo per poi rimettermi in piedi.”

Questo è quello che so e che mi rimane di mio fratello.
L’ho conosciuto a malapena, se conoscere vuol dire guardare e sentire più volte la stessa persona.

Guardo fuori dalla finestra. Piove. Piccoli fiumi si creano e muoiono all’esterno del vetro, in una via lattea di umidità.

Dinanzi è un cielo di grandi stelline, nonostante la pioggia splendono bianche per la purezza sola dell’animo nobile che le guarda, non coprono il cielo, ma gli sguardi assenti, per chi ama davvero, non si perde tempo a scrutare; è nel segreto di esse, scoprire ed elevare chi guarda col cuore e sente ciò che elevare consente.

Nel silenzio a volte per stare bene bisogna cercare di estrapolare tutto e costruirsi un nuovo mondo dove poter accedere; è poi il continuo uscire e tornare da esso che ci guida nel nostro mondo sensibile, è irrazionale, è però esso, e lo accetto.

Finché sto bene.

Confusione. Un’epilessi di iperboli menziose. Io al centro di tutto, tutto intorno a me. Se punto vitale dello scorrimento, felicità allora è il mio emblema, consecutivo è il quieto apparire di ciò che circonda. Abraxas.

Tutto ciò che mi serve è trovarmi, in fondo a tutto. Vitale egoismo. Da un lato felicità condivisibile. Ma tutto questo svanisce li dove continuerà per sempre ad essere meno nitida la tua figura.
Mi manca Fregoli, come a Jekyll manca Hyde.

Fumo un po’. La coltre grigia di fumo svanisce lenta diradando la visuale che ho del mondo da questa stanza. Faccio due passi verso la finestra quel tanto che basta per creare un alone con il calore del mio respiro.

Disegno una linea diritta.
Scruto fuori e noto un bambino al riparo sotto la protezione vigile del padre. Guardo gli occhi di quel bambino e cerco di estrapolarne l’infinito che gli si proietta veemente dinanzi. Cerco di capire su cosa si accanisce la sua volontà di sapere, il suo nutrirsi di curiosità per le cose che più reputo sopravvalutate.

Questo bambino mi dona con i suoi occhi ciò che un natale con i suoi doni non potrebbe darmi. M’illumina di conoscenza il soffermarmi su occhi che poi si soffermano sui miei. La fanciullezza e la sua purezza.

Gemito. Gli stessi occhi. Forse comincio ad essere pazzo, mi guardano entrambi, sia il padre che il figlio, logica la somiglianza tra loro, illogica quella con mio fratello. La paura dell’attimo mi fa trasalire e ripercorro gli stessi due passi a ritroso, riparandomi nel buio della mia dimora.

Cosa mi ricordano esattamente quegli sguardi? La mia domanda trova un’inaspettata risposta semplicemente voltandomi sulla foto incorniciata sopra il camino. Mio padre con mio fratello. Il giorno del decimo compleanno di Fregoli.

Era il 10 novembre. Diciotto anni più tardi mio fratello morirà in preda a quello che i dottori descriveranno come una rara sindrome di schizofrenia.

Una sindrome d’illusione, in cui ogni cosa, persona, fatto estraneo prendevano sempre la stessa forma, quella di mio fratello, in maniera spirituale oltre che fisica, ma maggiormente la prima.

Come se ogni cosa che accadesse di sbagliato a qualcuno ricadesse comunque e sempre sulle sue spalle, o più precisamente dentro la sua testa. Con spregiudicata ironia ho sempre avuto l’immagine di un miliardo di sinapsi cerebrali che in un medesimo istante fusero il suo cervello.

Ma questo suo modo di ragionare non sempre era stato così. Come dal flebile sbattere d’ali di farfalla in determinate condizioni climatiche può generarsi un tornado, così anche per mio fratello ci fu una piccola causa scatenante. Si chiamava Emma. Accadeva sette anni dopo quella foto.